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martedì 1 giugno 2010

Liceo

La poesia che segue ce la spedì Orazio Converso , matematico alternativo e poeta l’anno che fu trasferito . La dedico a tutti quei professori che riescono ad insegnare qualcosa , non importa che cosa ma comunque qualcosa che arrivi giù in fondo, si sedimenti, si riproduca come un’ eco , a quegli insegnanti che sanno insegnare il desiderio di conoscere, il piacere di sapere . La dedico pure a quegli alunni capaci di provare questi desideri e questi piaceri , insieme a tutti gli altri della loro giovinezza, ragazzi fortunati . La dedico infine a quegli insegnanti e a quegli alunni che tengono in bocca, qui a scuola , sul fiore delle loro labbra un sogno di libertà , la mite sapienza del “ volemose bene “ . Paola Rocchi – Maturità del 1983 , Professoressa in questo Liceo

“E’ citazione , ormai , non più eccitazione di mattina presto!
Perdonate, quindi, agli odierni maestri di sapere concedete
la mediocrità del lavoro quotidiano
strappatevi la testa e gettatela in giardino
dietro ai cipressi
dimenticate voi stessi
scomparite nelle classi
e andate in controfigura a Canossa.

Non ho nulla da dirvi, mi dispiace :

E’ vero
il potere che non c’era s’è disperso,
quel po’ di sapere che ci era utile
e che conserviamo; la saggezza mite
del “ volemose bene”
e, vi dico , ancora in bocca
un sapore impossibile di libertà”


Quel sapore impossibile di libertà
Un ricordo dell’insegnate Rocchi Paola, in omaggio ai trenta anni della scuola.

Quando, nell’estate di qualche anno fa, andai al Provveditorato di Roma per sapere a quale scuola ero stata destinata, in quale Istituto avrei trascorso il mio primo anno di insegnante di liceo, uscii che avevo le lacrime agli occhi. Per la gioia, si è soliti dire. Non esattamente, perché a volte capita anche di piangere dal gran ridere: Liceo Scientifico “Galilei” di S. Marinella, c’era scritto su quei due fogli. Da non credere. Ogni tanto la vita non sa proprio che inventarsi per metterti di buon umore; ero stata studentessa in quel liceo, ora ci tornavo da prof. Una cosa speciale. Come speciali sono stati i miei anni al “Galilei” di S. Marinella. Se, per l’occasione, provo a fissare qualche immagine in un ricordo, me ne vengono due, che sono ricordi di due persone ma anche di due spazi di questo nostro liceo, ora diversi da allora. Innanzi tutto il cortile: al posto del pavimento c’era la ghiaia che scricchiolava sotto i nostri piedi di adolescenti (sempre pieni di cose da dirci,al mattino presto, a ricreazione, al cambio dell’ora) e a delimitare il cortile stesso, dove ora comincia il marciapiede della nuova sede, una fila di alti,verdissimi,profumati cipressi. Il ricordo (un ricordo piccolo,ma a volte è proprio nei piccoli ricordi che si concentra il senso delle cose che facciamo,delle persone che siamo) il ricordo, dicevo, è questo: un giorno, all’ultima ora, usciamo fuori e aspettiamo nel giardino di ghiaia e cipressi il nostro prof di matematica. Poco dopo arriva e cominciamo piacevolmente a chiacchierare, noi seduti sugli scalini, lui in piedi: discutiamo sul concetto di infinito. La discussione va avanti per buoni quaranta minuti e poi scopriamo l’equivoco: il nostro professore si era dimenticato di aver un’ora con noi e pensava che fossimo lì in virtù di un buco. Noi invece pensavamo di essere restati lì in virtù di una piacevole lezione all’aperto sul concetto di infinito. Niente di più normale con lui, prof di matematica al biennio, matematico alternativo e poeta. A quei tempi ricordo che alcune famiglie avevano da obiettare sul suo metodo. Forse perché non ci costringeva a estenuanti megaespressioni, utili al fine di acquisire manualità algebrica, presumo, oltre che a soddisfare le ansie di “programma” di certi. Gliene sono grata. A che mai poteva servirmi nella vita la manualità algebrica? Con lui ho imparato altre cose. Per esempio ho imparato che la matematica è davvero il linguaggio con cui è scritto il gran libro dell’universo (Galilei, ancora e sempre Galilei…), che non è applicazione di formule già date, ma ricerca di soluzioni; che è anche dubbio e paradosso. Ho imparato che due rette parallele s’ incontrano finalmente in un punto ( beate loro ) e che il pelide Achille , per quanto veloce , non raggiungerà mai la lenta tartaruga ( ben gli sta ) .

Il secondo ricordo è legato ad un altro spazio del nostro liceo : quella che adesso è la sala insegnanti dell’edificio vecchio , quella che da sul terrazzino , per capirci . Li con i miei compagni ho frequentato il quarto anno . Una roba da non credere : quindici , sedici persone con il professore , sedici banchi e sedici sedie in un buco di stanza . Eravamo un corpo unico e compatto di gomiti, teste, quaderni .Quando qualcuno volava uscire o entrare, dovevamo alzarci tutti e manovrare insieme l’operazione . Per certi versi anche uno spasso . Io comunque avevo conquistato il posto vicino ( per meglio dire incollato ) alla porta finestra, con vista mare strepitosa. E di questo posto , in particolare io ricordo l’orario del Lunedì : Matematica – Chimica – Filosofia – Religione – Filosofia .Una bella parte dello scibile umano andava in scena di Lunedì , in quel buco inzeppato di diciottenni. Il professore di filosofia era un uomo sui quaranta alto ed esile, barba e capelli lunghi, riservato e meditabondo . Un tipo proprio perfettamente filosofico . Si sistemava come poteva dietro il suo banchetto , un po’ di sbieco e cominciava qualcosa che non era mai veramente una spiegazione , mai veramente un ‘ interrogazione, ma piuttosto sempre uno sgranare di pensieri , i suoi ed i nostri . E mentre parlava ogni tanto faceva da solo silenzio , concentrato ad inseguire un pensiero, mentre noi , mentre io concentrata aspettavo . Dopo di lui arrivava poi il nostro professore gesuita , un sacerdote giovane ed agguerrito . E non era un’ora di pausa , era proprio un’ora di lezione, tutti insieme li dentro ad alitarci come il bue e l’asinello , a parlare di Dio con i tremori , gli slanci o furibondi dubbi che si possono nutrire solo a diciotto anni. E così quando tornava il nostro Socrate , i discorsi della terza ora si intrecciavano con quelli della quarta per diventare discorsi della quinta , magicamente senza stanchezza, perché io almeno , con quel posto vicino alla finestra , sentivo i miei pensieri morbidamente galleggiare nell’azzurro , nell’azzurro degli occhi del mio professore di filosofia , del cielo che mi scorreva a lato , del mare che rullava in silenzio , laggiù.

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